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Capriolo (1951 – 1964)
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Carburatore Dell’Orto MA 15B, accensione a volano magnete alternatore, candela 225 della vecchia scala Bosch.
Lubrificazione con 1 kg olio e pompa di mandata a pistone, trasmissione primaria a ingranaggi conici, frizione a dischi multipli in bagno d'olio: 8 maschi rivestiti di materiale d'attrito e 7 femmine in acciaio. Cambio a 4 marce con ingranaggi sempre in presa, a espansione di sfere, comandato a pedale sul lato sinistro, e trasmissione finale a catena.
Ruote a raggi, in acciaio, con gomme 24 x 21/4, oppure 2.50 x 20.
Le ruote da 24 x 21/4 erano dotate di mozzi in lega di alluminio, con freno laterale a tamburo e perni sfilabili. Il mozzo posteriore era scomponibile a livello del parastrappi, in modo da poter sfilare la ruota posteriore senza togliere la catena.
Da questo modello stradale, derivò una piccolissima serie di “pezzi unici” trasformati artigianalmente per le competizioni in fuoristrada, come pure, furono allestiti altri “pezzi unici” per correre la Milano Taranto.
Lo stesso dicasi per le rare partecipazioni di piloti privati che modificavano le proprie motociclette, a volte, avvalendosi di capaci meccanici, a volte, procedendo direttamente, sulla base delle proprie esperienze.

Per tutti gli anni 50 e buona parte degli anni ’60, nessuna casa costruttrice pensò mai di commercializzare mezzi del genere, considerandoli unicamente degli esemplari da competizione, moto “ufficiali” che davano lustro al marchio, ma pubblicizzavano sempre e solo i modelli di serie da cui erano derivati.
A quei tempi le vetrine più rinomate per mettere in mostra le proprie doti erano le grandi prove di durata, la cui eco aveva una rilevanza internazionale.
La versione “corsa” del Capriolo raccolse molti successi, come la Milano Taranto del 1954 o il Giro Motociclistico d'Italia del 1955, in entrambi i casi condotta alla vittoria da Claudio Galliani. 
Più lenta fu la sua ascesa nell’olimpo del fuoristrada dovuta anche alla difficoltà oggettiva, derivante dalla cilindrata un po’ troppo bassa e inadatta quindi ad esprimere una potenza ed una affidabilità sufficienti a portare a buon fine i durissimi percorsi di queste disciplina sportiva emergente.
Anche se timidamente il “Capriolo” cominciò a cimentarsi nelle più impegnative corse in fuoristrada, adattando via via le sue forme, per meglio affrontare boschi e mulattiere.
Parafanghi e manubrio alti, tubo di scarico che risaliva nel posteriore, ruote artigliate, sella monoposto, un utile bauletto porta attrezzi, molleggi più solidi ed efficienti ed una minuziosa preparazione del motore trasformarono questi microbolidi trentini in autentiche macchine da corsa.


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